Introduzione

Nell’arcaico, tensionale e contraddittorio rapporto tra l’uomo e il mare, i saperi tecnici finalizzati allo sfruttamento delle risorse si intrecciano inestricabilmente con specifiche concezioni del mondo e della natura. Così, alla dimensione materiale relativa alla produzine degli strumenti artigianali funzionali alla pesca, si affianca un complesso e vasto orizzonte di rappresentazioni ideologiche e di pratiche simboliche. Le relazioni tra le scadenze stagionali e i cicli riproduttivi delle varie specie ittiche, le regole per mantenere i delicati equilibri biologici, le ritualità connesse alle varie fasi della pesca, rientrano ancora oggi tra le conoscenze di chi dal mare trae il proprio sostentamento. In Sicilia, le innovazioni tecnologiche e le trasformazioni socioeconomiche non hanno infatti del tutto scardinato il vasto patrimonio di saperi, conoscenze e competenze tradizionali che è ancora detenuto dalle comunità di pescatori. L’identità della pesca, che questo Registro intende mappare, si declina nei diversi contesti d’uso con peculiarità locali che possono tuttavia essere ricondotte ad alcune importanti costanti. Tra queste, sono innanzitutto da annoverare le tecniche di costruzione e manutenzione degli strumenti del mestiere. Reti, nasse, lenze e imbarcazioni sono la testimonianza materiale della permanenza strutturale e funzionale delle tecniche di pesca più arcaiche.

Le reti, in passato di canapa e cotone con gli antichi sugheri, sono oggi realizzate sempre più frequentemente in nylon e plastica, ma sono ancora costruite dai pescatori e utilizzate per le più antiche tecniche di pesca. Possono essere raggruppate in due categorie: rriti i summu e rriti i funnu. Nella prima tipologia rientrano le reti da posta con deriva (l’alalungara, la bbisara, la piscispatara e la luvara) e le reti da circuizione (u cianciolu e a rraustina), nella seconda le reti da posta senza deriva (u trammagghiu o rrizzuolu) e le reti da traino (paranza, rrizza volanti, sciàbbica, tartaruni, tartagna). Due reti non rientrano in modo univoco nelle due categorie: la tratta (o minarda) e i schitti, che possono essere calate sia in superficie sia in profondità (cfr. Giallombardo 1990).

All’uso sapiente delle reti, si affiancano le tecniche di pesca con le lenze o le nasse, che si tramandano da generazioni insieme alle conoscenze funzionali alla costruzione e manutenzione di questi strumenti del mestiere. Se la motorizzazione e l’introduzione di strumenti meccanici rendono sempre più diffuso l’uso di pescherecci, soprattutto per la pesca a paranza e col cianciolu, sono ancora estesamente utilizzate alcune imbarcazioni tradizionali per la pesca sottocosta, generalmente a remi, e al largo, soprattutto a vela latina.

Tra le prime, le più usate sono la lancia (lancitedda), adatta alla pesca con le lenze, e il gozzo (vuzzarieddu), per la pesca con piccole reti. Le barche tradizionali erano e in parte sono ancora adattate alle diverse tipologie di pesca e questa competenza rientra tra i saperi dei mastri, lavoratori specializzati che possiedono e tramandano anche un’ampia conoscenza delle caratteristiche dei vari tipi di legno e delle tecniche di costruzione.
Questi saperi del mare sono ancora oggi vitali e documentabili presso i cantieri navali attivi dei borghi marinari siciliani, che si occupano oggi prevalentemente di manutenzione.

Il lavoro dei mastri per la costruzione delle barche si svolge tradizionalmente in quattro fasi: la prima è la realizzazione e l’assemblaggio di chiglia (ruota), dritto di prora (campiuni i prua) e dritto di poppa (campiuni di puppa) in una struttura provvisoria resa stabile dalla tavula ri cinta; la seconda prevede il fissaggio della tavula, del banco di voga (vancata), delle paratie (linchìa e linchiedda) e il completamento dell’opera morta; la terza consiste nella sistemazione del fasciame dall’alto della tavula verso la chiglia; l’ultima fase consiste nel calafataggio, per garantire alla barca l’impermeabilità (cfr. Giacomarra, Aiello 1990).

L’uso di decorare le barche era una competenza specialistica di pincisanti e pitturi, che eseguivano i soggetti sacri, mentre gli stessi pescatori potevano realizzare gli altri motivi: sirene, delfini, cavalli marini, stelle, occhi, corni, ferri di cavallo etc. (cfr. D’Agostino 1996). Questi simboli ricorrenti e ancora oggi visibili sulle imbarcazioni tradizionali testimoniano la persistenza di un linguaggio iconografico e del legame che i pescatori stabiliscono con la propria barca, strumento di lavoro e fonte di reddito fondamentale. Sulle imbarcazioni i pescatori trascorrono il tempo in mare, che in passato era scandito dai canti, funzionali ad alleviare la fatica e a ritmare le fasi più importanti dell’attività. Tra questi, le cialome scandivano la fase cruciale della pesca del tonno (il sollevamento del coppu) e tutte le operazioni funzionali alla mattanza: la sistemazione dei cavi per sospendere le reti, il loro posizionamento, lo smontaggio e la conservazione di reti, cavi e ancore fino all’alaggio delle barche.

Queste attività erano eseguite dalle squadre di pescatori (tonnaroti) al servizio del rais, che impartiva gli ordini e regolamentava il susseguirsi delle fasi della cattura del pesce. Questa avveniva attraverso un sistema di reti parallelo alla costa e il passaggio obbligato in cinque camere (càmmari) sino al coppu o corpu destinato all’uccisione dei tonni. Le fasi, i gesti e le parole della mattanza evocano un passato rimasto immutato sino alla recente dismissione delle tonnare siciliane che rimangono ancora nelle loro componenti materiali a ricordare il complesso sistema di organizzazione di un’attività di pesca e le sue ritualità. Tra le pesche speciali è essenziale annoverare, insieme alla mattanza, anche la pesca del pescespada. Eseguita con l’arpione da aprile a giugno sulla costa calabra e da luglio a settembre lungo la costa messinese, questa tecnica di pesca è tra le più antiche tra quelle diffuse nel bacino del Mediterraneo. In Sicilia, l’avvistamento era effettuato dalla cima di alberi di grandi imbarcazioni ancorate e in passato prevedeva l’uso di appositi richiami con valore magico-rituale. Ancora altre specifiche modalità di sfruttamento delle risorse del mare hanno caratterizzato la Sicilia e ne veicolano l’attuale identità. I saperi e le articolate tecniche di produzione del sale si mantengono ad oggi vitali lungo il litorale che va da Trapani a Marsala nelle saline, che generano la progressiva evaporazione attraverso un sistema di vasche. Anche la pesca e lavorazione del corallo è una pratica che connota l’identità del Mediterraneo e trova nella Sicilia un importante centro di produzione sin dal Medioevo.
Le forme di organizzazione della vita e del lavoro dei centri marinari sono rimaste omogenee nei loro caratteri essenziali. Allo stesso modo persistono, pur nel variare dei sistemi e nel contesto di profondi mutamenti socioeconomici, alcune tecniche. Tra queste, la salagione, che rappresenta la fase conclusiva dell’attività di pesca di sarde e alici ed è ancora effettuata presso alcune aziende siciliane in modo artigianale e manuale. Le sarde e le alici pronte per il consumo sono elementi caratteristici e costanti dell’alimentazione tradizionale. Nella varietà molteplice di ricette che connotano ciascun borgo marinaro e al suo interno ciascuna famiglia, la cucina tradizionale si mantiene sostanzialmente invariata, con alcune preparazioni che rimangono inalterate da tempi immemori, come la ghiotta marinara, il couscous e altre ricette che prevedono la manipolazione del pesce. L’alimentazione è uno dei tratti resistenti dell’identità siciliana, insieme ad altri elementi che connotano l’isola e il suo rapporto con la pesca e il mare investendo la sfera del sacro e del simbolico.
Numerose sono le celebrazioni rituali tradizionali, sacre e profane, arcaiche e più recenti, praticate nei borghi marinari, incluse nel Registro delle identità della Pesca Mediterranea e dei Borghi marinari. Tra i più antichi riti radicati nei territori, le festività religiose hanno certamente un ruolo preponderante e centrale. Strettamente correlate alla vita delle comunità costiere e dei marinai, le celebrazioni sacre hanno, infatti, ancora oggi un’importanza cruciale nel mantenimento dell’equilibrio tra uomo e natura/divino e nel rafforzamento delle relazioni sociali.
«Nelle culture marinare la religione, in quanto strettamente collegata al tipo di vita e ai rischi a cui la vita è esposta, esprime tematiche che riflettono in modo simbolico il rapporto uomo-mare. Per fronteggiare la precarietà e attingere sicurezza anche il rapporto con il santo, scelto a proprio protettore, esprime l’esigenza di controllare ed esorcizzare il rischio reale riportandolo nella sfera del simbolico» (Ranisio 1990: 85). L’insicurezza, la precarietà e il rischio dettati dalle mutevoli condizioni climatiche conferiscono dunque all’attività della pesca e alle professioni legate al mare un carattere di “imprevedibilità” che necessita di essere controllato e, in qualche modo, addomesticato dal divino. È per questo motivo che i santi vengono portati in processione a mare (o sulla costa) al duplice scopo di ringraziamento per la stagione di pesca già svolta e di intercessione propiziatoria per le battute di pesca future. Sono, inoltre, intrinsecamente legate al mare le leggende di fondazione di molti dei culti dei santi patroni dei borghi marinari, che raccontano di prodigiosi salvataggi di pescherecci in balìa di fortunali e di ritrovamenti di effigi sacre che sin dal primo momento manifestano miracolosi poteri; è questo il caso, per esempio, della Festa della Madonna del Lume di Porticello (Santa Flavia, PA), il cui simulacro venne ritrovato da alcuni pescatori tra le reti e che viene venerato ancora oggi con grande devozione dall’intera comunità.

«Come nella realtà il mare può togliere vita e mezzi di sostentamento ma può anche garantire la conservazione e la riproduzione del gruppo sociale, così nel simbolismo religioso il mare diventa l’elemento attraverso cui una comunità marinara può acquisire il proprio patrono» (ibidem).
Il coinvolgimento delle comunità non solo nella partecipazione, ma anche nell’organizzazione degli eventi festivi, attraverso questue, confraternite e comitati di festeggiamento, è testimonianza del forte sentimento di appartenenza tra gli uomini e il divino che è ancora oggi vivo e si manifesta nelle poliedriche forme di devozione che sono raccolte tra le pagine di questo Registro, che rappresentano solo una piccola porzione del multiforme panorama festivo isolano correlato al mare.
«Rispetto alle trasformazioni sociali e culturali prodottesi nelle aree di cultura tradizionale, le feste religiose hanno mostrato una certa resistenza al mutamento e anzi, in certi casi, hanno vissuto riprese e amplificazioni. Le ragioni della permanenza di tratti culturali, almeno apparentemente, arcaici potrebbe essere rinvenuta anche nel desiderio di confermare la propria specificità comunitaria e con essa il senso stesso del proprio esserci minacciato da tanto rapide quanto traumatiche trasformazioni […] È attraverso le feste che si riproduce e riafferma l’identità, tanto individuale quanto collettiva, nella ideale ricapitolazione dei valori sociali e ideologici della propria cultura» (Buttitta 2009: 34).
Parallelamente alle festività religiose, nel corso degli ultimi 30 anni, si sono affermate nei territori manifestazioni di carattere celebrativo e promozionale di prodotti tipici, in particolare del pescato locale, che, pur avendo avuto origine in tempi più recenti, sono diventate appuntamenti attesi sia dalle comunità locali che dai turisti. Al fine di rilanciare le economie locali sono nate dunque Sagre e feste del pesce, che diventano occasione per richiamare nel territorio visitatori e offrire loro prodotti locali e pietanze che conservano i sapori genuini delle ricette tradizionali, custodite nei focolari delle famiglie del luogo. Tra le più note manifestazioni si citano qui, solo a titolo esemplificativo, il Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo (TP), diventato polo accentratore di migliaia di visitatori, ma anche le Sagre e Feste del mare che si tengono nei borghi marinari di Acireale (Pozzillo, Stazzo, Santa Maria la Scala, Santa Tecla), la Sardiata: la sagra delle sarde incannate a Marinella di Selinunte (TP), la Sagra del pesce di Portopalo (SR) e la Sagra del mare di Sciacca (AG).
All’interno dell’ampio panorama delle celebrazioni rituali vanno menzionati anche numerosi eventi festivi che hanno carattere coreutico, drammatico e ludico. È questo il caso della Rievocazione storica del miracolo della Madonna del Soccorso di Castellammare del Golfo (TP), o della Pantomima del Pisci a mari di Aci Trezza (CT), che occorre in occasione della festività di San Giovanni Battista, o dello Scherzo del pesce, che si tiene nelle borgate marinare di Stazzo e Pozzillo ad Acireale in occasione delle feste patronali di San Giovanni Nepomuceno e di Santa Margherita. Queste farse mettono in scena momenti salienti dell’attività della pesca, simulando ritualmente la vittoria del pesce sui pescatori, che rimangono sistematicamente a mani vuote, arrendendosi alla forza e alla vivacità del pesce e dunque della natura. Il clima di esultanza e goliardia che si crea in occasione di questi momenti comunitari richiama espressamente la funzione apotropaica delle messinscene, ricreate al fine di allontanare la cattiva sorte e di augurare, invece, una pesca abbondante.

Il sentimento di aggregazione collettiva si esprime anche attraverso le tradizionali attività ludiche organizzate in occasione delle feste patronali. Tra i più comuni giochi della tradizione praticati nei borghi marinari oggetto di questa pubblicazione si menzionano a cursa ri sacchi (corsa dei sacchi), u jocu ri pignatedda (gioco della pignatta), a cursa ri varchi (gara di barche) e la ‘ntinna a mari (antenna a mare). A titolo esemplificativo si cita in questa sede una tra le più note ‘ntinni a mari, ovvero quella che si tiene da secoli a Cefalù in occasione dei festeggiamenti in onore del SS. Salvatore. Durante la competizione i pescatori si sfidano a impugnare la bandiera posta all’estremità di un palo cosparso di sapone e grasso, sporgente sul mare.
La figura del pescatore, protagonista di quasi tutte le tradizioni raccolte in questo volume, è attore principale anche di una leggendaria tradizione diffusa in molti borghi costieri della Sicilia e di tutta l’Italia meridionale, quella del «cosiddetto taglio delle trombe d’aria, rituale segreto ancora oggi utilizzato da alcuni uomini di mare» (Fragale 2016: 25). Secondo questa tradizione alcuni pescatori (in genere i primogeniti), detti, a seconda del dialetto locale, ddraunara, dragunara/ tragunara, dragunera, cura traunara (cfr. ivi 29), erediterebbero dai propri avi delle capacità magiche che gli permetterebbero, con l’ausilio di preghiere, formule e oggetti rituali (come coltelli, falci o forbici), di “tagliare” le trombe d’aria, ovvero di disinnescare un fortunale o una tempesta, scongiurando i pericoli incombenti sui pescherecci. È questo il caso di Silvio Taranto, pescatore e ultimo tagliatore di trombe marine dell’arcipelago eoliano, che ancora oggi testimonia la pratica attraverso i suoi racconti. La tradizionale pratica del taglio delle trombe marine è documentata anche in altri borghi marinari, dove si registrano varietà rispetto ai “poteri magici” posseduti dai tagliatori, ai rituali attraverso cui si acquisiscono i poteri, alle formule utilizzate durante il rito, etc.
Oltre alla minaccia delle trombe marine, vivo è nella memoria collettiva il sentimento di paura suscitato dai leggendari avvistamenti di mostri marini, le cui immagini polimorfe ricorrono tanto nelle pitture rupestri (come il mostro raffigurato nella Grotta di Santa Margherita a Castellammare del Golfo), quanto nei racconti vividi della gente di mare. Un esempio di queste leggende è quello che riguarda il mostro marino di Torre Archirafi, Riposto (u Sugghiu da Turri), avvistato in diverse occasioni lungo le coste della Riviera dei Ciclopi. Secondo la leggenda, tanto nota e “reale” da salire agli onori della cronaca locale e nazionale, il mostro, metà rettile e metà pesce, spaventava la popolazione locale divorando addirittura gli animali che si trovavano in riva al mare.
L’articolato patrimonio di riti, credenze e pratiche tradizionali dei borghi marinari della Sicilia si intreccia con la storia dei luoghi e con il complesso di miti e leggende di cui si possono ravvisare significative tracce anche nella toponomastica. È così che alcuni luoghi richiamano alla memoria Ulisse e Polifemo, come Riviera dei Ciclopi, ma anche Acireale, legata al mito di Aci e Galatea, e altri rimandano alle contrastanti e multiformi interpretazioni della figura femminile nella storia dell’umanità (ora un essere puro da proteggere, ora una pericolosa minaccia per l’integrità della società) come suggeriscono le numerose e fantasiose interpretazioni del toponimo di Isola delle Femmine.