Le Tonnare

Il grande complesso della Tonnara di Favignana che, durante gli anni di attività, coinvolgeva buona parte della comunità locale. Foto di Markos90 via Wikimedia commons

Tutte le comunità del Mediterraneo che hanno praticato la pesca del tonno hanno un linguaggio universale antichissimo fatto di tecniche, credenze e termini, frutto di millenni di cultura e di un incontro costante tra passato e presente in cui tutto si fonde per ricomporsi in una unità originale.
La Sicilia, insieme alla Sardegna e alla Tunisia, è stata un’“industria” marittima molto florida, con bottini impressionanti fino a quando questa straordinaria avventura si è definitivamente fermata. Una cultura che affonda e intesse le radici delle tre comunità culturali del Mediterraneo: l’universo greco della mitologia, quello delle maestranze islamiche e quello della cristianità. Così, nella mattanza ritroviamo le movimentate scene di uomini, di barche, di canti della tragedia greca, nel raìs, nome arabo che nell’Islam designa i capitani del mare, ritroviamo l’omero dell’Iliade che saluta l’entrata dei tonni con la “scialoma”, dal saluto arabo salam. La tonnara è Eros e Thanatos, è religione e superstizione, tecnica e magia, tramandati oralmente per lunghi millenni. Memoria che si sta dirigendo verso un viale del tramonto e per questo è necessario operare per rievocarla e consegnare questi segni di cultura materiale e immateriale alle future generazioni.
Il racconto parte da una descrizione della corsa del tonno che partendo dalle grandi traversate oceaniche, spinto dalla corrente oceanica e dall’istinto di riproduzione, giunge lungo le calde coste del Mediterraneo in primavera, tracciando una rotta di andata, o “corsa”, prima della fase della riproduzione e una di ritorno, post genetica. Si prosegue poi, con la descrizione delle origini della pesca del tonno a partire dalle prime testimonianze storico-letterarie come Omero nell’Odissea, Aristotele e Eschilo, e rupestri come quelle dei graffiti della Grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo, dove tra le immagini rappresentate alcune sono state identificate come tonni.
Il terzo paragrafo traccia le tonnare siciliane nella storia. Dalle fonti archivistiche, cartografiche e bibliografiche si parte dal basso Medioevo, dove la pesca del tonno costituisce una delle più importanti fonti di reddito, dato in gabella dal demanio regio solo alle ricche famiglie, considerando che l’investimento era alquanto oneroso. Proseguendo per i vari periodi storici delle diverse dominazioni tra cui quella spagnola, dove inizia la “privatizzazione delle tonnare”, per arrivare alla fase di organizzazione in “sistema industriale” nell’Ottocento con la famiglia Florio e alla crisi del Novecento che ha portato alla definitiva chiusura delle tonnare.
Il quarto paragrafo fa un cenno sulla stima della produzione dei tonni negli anni. A causa della mancanza di dati continuativi e di fonti archivistiche delle imprese che negli anni sono andati distrutti, infatti è possibile solo desumere delle stime per alcune tonnare e solo per determinati periodi storici.
Il quinto paragrafo descrive l’architettura delle tonnare di mare e delle tonnare di terra, i cosiddetti marfaraggi. Se gli schemi d’impianto delle tonnare sono rimasti pressoché invariati nei secoli, i materiali si sono invece adattati negli anni alle nuove tecnologie. Così ad esempio il sughero per tenere a galla le reti è stato sostituito da materiale plastico, le reti da fibre naturali a fibre sintetiche. Tutto il resto, i movimenti, i canti, le preghiere, le invocazioni superstiziose, sono rimaste immobili e fisse per secoli.
Il sesto paragrafo racconta l’organizzazione delle ciurme di terra e di mare e delle varie figure coinvolte. Il ciclo di lavoro, infatti, era diviso in tre fasi: la prima si svolgeva soprattutto in inverno e consisteva nella preparazione dei materiali e delle reti; la seconda riguardava la ciurma di mare e l’organizzazione della pesca; la terza, in terra, riguardava la “tagliata” e tutte le successive fasi di produzione. L’equipaggio era quindi molto numeroso. Ogni tonnara aveva una sua organizzazione gestionale e organizzativa propria e la contrattualizzazione seguiva obblighi e clausole simili, ma non uniformi.
Il settimo paragrafo, racconta il linguaggio delle tonnare fatto di simbolismi, riti, preghiere, superstizioni, cialome tramandati per secoli, di generazione in generazione, e gelosamente custoditi e di cui il raìs è il personaggio chiave.
Infine, si fa un excursus panoramico sulle varie tonnare disseminate nel territorio siciliano diviso per provincia, da est verso ovest seguendo la linea di costa, delle quali per molte non rimangono purtroppo che poche tracce.

L’origine della parola TONNO la troviamo nel greco ϑύννος, la cui radice indica un muoversi rapido e impetuoso. Il tonno comune, il più importante dal punto di vista della pesca, ha corpo fusiforme, di colore azzurro scuro sul dorso, argenteo sul ventre, e può raggiungere 2 o 3 m di lunghezza e 400 kg e più di peso. Il tonno è un animale pelagico che compie migrazioni più o meno estese, le cui aree di riproduzioni e rotte sono state a lungo dibattute.

Schema grafico esemplificativo delle storiche rotte del tonno rosso nel Mediterraneo. Elaborazione grafica: Emanuele Messina

Oggi, «È stato sperimentalmente e chiaramente dimostrato che in Atlantico e mari adiacenti esistono almeno due grandi aree di riproduzione del tonno: la prima, la più nota oggetto di secolari e dettagliate descrizioni, si trova nel Mediterraneo e qui i tonni si riprodurranno nei mesi di giugno e di luglio; la seconda interessa invece parte del Mar dei Caraibi, ma soprattutto il Golfo del Messico ove essi si riprodurranno nei mesi di maggio e giugno di ogni anno e perciò in tempi praticamente coincidenti» (Sarà 1983: 78).
La teoria moderna delle migrazioni dei tonni e dei loro comportamenti e accettata in campo internazionale vede spaziare i tonni in enormi distese oceaniche. In funzione della loro temperatura interna nuotano con una aggregazione di gruppo casuale e temporanea con regole comportamentistiche che cambiano a secondo il momento. Si passa da gruppi costituiti da animali di taglia pressoché uguale, per una migliore difesa individuale, a gruppi che si arricchiscono di nuove unità quando in primavera sentono la necessità di unirsi ad altri loro simili, per poi disaggregarsi di nuovo. In primavera il gruppo, spinto da scariche ormonali, man mano si muove e si ingrossa di nuove unità dirigendosi verso acque più tiepide. Inizia così la “corsa” del tonno. Per non bruciare le riserve di grasso necessarie per la riproduzione si muovono spinti dalla corrente atlantica e dallo Stretto di Gibilterra entrano nel Mediterraneo, dove acque più tiepide e saline li sostengono nel galleggiamento aiutandoli a mantenersi più in superficie anche in conseguenza del peso specifico che diminuisce per il crescente volume delle gonadi ricche di grassi. Le rotte delle correnti suddivideranno poi il gruppo per le varie coste del Mediterraneo. Qui il tonno rallenta sia la corsa che l’irruenza e la voracità alimentare, diventando un animale più lento e più calmo. Seguendo sempre le correnti si dirige verso acque con particolari condizioni termiche e saline dove, mediante uova pelagiche fecondate esternamente, avviene la riproduzione. L’animale quindi, completato il ciclo, torna alla voracità e riprende la rotta per gli spazi oceanici.

La pesca è un’industria antica quanto il mondo. Testimonianze storico-letterarie che fanno riferimento a tonni catturati le ritroviamo già nei maggiori autori greci da Omero nell’Odissea a Eschilo che ne “I Persiani”, la tragedia più antica che ci sia stata tramandata, narra il fatto storico della battaglia di Salamina in cui i Greci nel 480 a.C. con pochissime navi sconfissero e costrinsero alla ritirata il potentissimo esercito di Serse. Nella narrazione Eschilo descrive il massacro «Come se i nostri uomini fossero tonni».

Graffiti testimoniano una primordiale pesca del tonno nelle Isole Egadi già nel Neolitico.
Foto di Norbert Nagel, Mörfelden-Walldorf via Wikimedia commons

Il primo a descrivere il tonno dal punto di vista sistemico fu Aristotele al quale già nel 350 a. C. si deve una descrizione della pesca a circuizione dei pesci in banco. Questo sistema di pesca era basato sullo scrutamento del mare, l’individuazione del banco e il suo accerchiamento. Nelle fonti storiche si riscontrano due metodi di accerchiamento: in mare aperto, dove i pescatori utilizzavano solo le loro imbarcazioni, e in prossimità della terraferma dove invece avevano un appiglio sulla costa. Questo sistema di pesca antico, da Omero ai giorni nostri è stato sempre costituito quindi dalle trappole-tonnare.
In Sicilia, dallo studio delle stratificazioni della Grotta dell’Uzzo, la nascita dell’attività della pesca è stata datata nel Mesolitico, tra 14.000 e 6.000 anni fa. Le prime rudimentali reti risalgono al neolitico e la pesca del tonno probabilmente inizia alla fine del neolitico. Di questo periodo sono infatti i graffiti della grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo, dove tra le immagini rappresentate alcune sono state identificate come tonni.
Le migrazioni dei tonni e i loro comportamenti sono stati sicuramente a lungo osservati dai nostri antenati per potere costruire le trappole-tonnare. Gli archetipi di tonnara furono messi a punto nelle varie coste del Mediterraneo, disposti secondo precise regole e usando materiali locali.
«Una tonnara è in effetti quell’impianto di reti in mare, disposto a sbarramento di un determinato specchio acqueo, costituito da un’“isola” formata da “camere” e da una “coda o pedale” capace di incanalare i tonni che lo incontrano, durante i loro liberi movimenti nel golfo, orientandoli verso l’isola stessa che ha, a sua volta, capacità di trattenerli e di mantenerli come in una trappola» (ivi: 28).
In Sicilia la pesca del tonno subì influenze e trasformazioni a partire dai fenici che intorno al XII secolo a.C. furono tra i primi a pescarlo e commercializzarlo.
Durante il periodo greco-romano gli edifici a terra assumono le connotazioni di uno stabilimento, già conformato da «Spazi necessari a movimentare nel modo più opportuno l’enorme massa del materiale occorrente per la pesca, ma anche a ricoverare, a dare ristoro alle ciurme, a lavorare soprattutto i tonni catturati, a conservarne il prodotto finale. Essi man mano si articoleranno differenziandosi e rapportandosi alle diverse esigenze» (Sarà1998:.22).
Negli stabilimenti oltre alla conservazione del pesce, veniva anche preparato il garum, una salsa realizzata con il pesce e le sue interiora che venivano lasciate a macerare con sale e spezie. La tonnara subì poi importanti influenze soprattutto linguistiche al tempo del dominio arabo, come testimoniano gesti e parole come ad esempio il raìs, cioè il capo tonnara, sino a divenire quasi immutata nella tecnica e nei gesti fino ai nostri giorni.
La pesca del tonno era un’attività che coinvolgeva tutta la comunità. Fino a qualche anno fa, in Sicilia tra maggio e giugno e in minima parte anche a settembre, con l’arrivo dei tonni tutti si mobilitavano. Contadini, pastori, uomini vicini e lontani diventavano “tonnaroti”.
Quello alle reti è infatti un lavoro collettivo, guidato dal raìs che non è solo “il capo”, ma anche un uomo carismatico, un capo spirituale. È lui, infatti, che recita le preghiere nel momento più importante della pesca: la calata delle reti in mare. È lui che interpreta i segni del cielo e del mare, che osserva i flussi delle correnti e sceglie i punti esatti per calare le reti. È da questi passaggi che dipenderà l’esito della trappola per tonni.
Il lavoro collettivo poi, si compirà al ritmo di un coro di gesti e di parole carichi di antichi riferimenti simbolici e di rispetto, a partire dal nome tonno che viene riferito solo all’animale vivo, forte e degno di rispetto, mentre verrà chiamato tunnina da morto, cambiandone anche il genere.

Resti archeologici di epoca romana testimoniano la preparazione del garum nella fascia costiera tra San Vito Lo Capo e Monte Cofano

Proprietari, ciurme, raìsi, amministratori, maestri d’ascia, ma anche istituzioni civili e religiose, sono tante le figure che entravano in gioco nel funzionamento della tonnara, con ruoli e compiti differenziati, con vari rapporti di lavoro secondo gerarchie ben definite. La gestione della tonnara richiedeva capitali oltre che perizia, competenze e organizzazione.
Per diversi secoli la pesca è stata un’attività libera da regolamentazioni e tributi, ragion per cui in questa lunga fase, che durò fino alla dominazione araba, non vi sono che pochissime tracce di documentazione scritta.
Dopo l’arrivo degli arabi, con le innovazioni prodotte nella loro lunga permanenza, l’attività del tonno si sviluppa notevolmente, diventando di tipo industriale oltre che stagionale. Ciò richiedeva l’uso di postazioni a terra oltre che di mare e da questo momento iniziano tracce documentate scritte.
Dalle fonti archivistiche, cartografiche e bibliografiche a partire dal basso Medioevo fino al Novecento è stato possibile individuare diversi siti delle tonnare siciliane, nonostante dati e localizzazioni spesso contrastanti tra loro.
La figura del tonnaroto libero scompare con l’arrivo dei Normanni e da questo momento in poi l’organizzazione delle tonnare cambia. Viene istituito una sorta di diritto demaniale per cui per pescare servirà la Regia Concessione. Le tonnare vengono classificate e inventariate e molte cedute in perpetuum alla Chiesa. Dal Gran Conte Ruggero a Federico II moltissime sono state le tonnare cedute. Fu così, per citarne alcuni, per la tonnara di Fimi ceduta all’Arcivescovo di Monreale, la tonnara Xibiliana al vescovo di Mazzara, La tonnara di Oliveri al vescovo di Patti, la tonnara di Scopello al Monastero di Santa Maria di Boico. Vennero stabilite concessioni, assegnazioni, gabelle. Ogni tonnara doveva cedere alle vari istituzioni ecclesiastiche dell’isola una quantità di tonni stabilite nelle “assegnazioni”. Inoltre, a decidere il prezzo del pescato non erano nè i pescatori nè i pescivendoli bensì i Magistrati urbani.
Nella metà del XV secolo si contavano 39 siti di cui 19 nel territorio palermitano, 3 nel siracusano, 11 nel trapanese e 6 nel messinese.
Interessanti aspetti giuridici della pesca siciliana li ritroviamo nell’opera di F. Di Paola Avolio, “Delle leggi siciliane intorno alla pesca opera dell’avvocato Francesco Di Paola Avolio”. L’autore disputando sulle gravi imposte che gravano in Sicilia sul pesce arrecando danni ai pescatori, cita interessanti stati giuridici antichi come quello del 1524 dove una Prammatica del Duca di Monteleone stabiliva che da aprile a giugno i tonnaroti che si trovavano in carcere in quel periodo dovevano essere liberati e non potevano essere perseguiti dai loro creditori.
Nel 1506, per incarico di Ferdinando il Cattolico, Giovanni Luca Barberi notaio di Lentini, redasse il Capibrevium. L’opera è un rendiconto sulla situazione sia dei beni feudali che ecclesiastici in Sicilia da cui si desumono 35 tonnare in esercizio, sia grandi che toni, cioè piccole tonnare. Nell’elenco compaiono nuovi siti di pesca rispetto al passato, ma anche stesse tonnare, ma con localizzazione diversa.
Tra il 1577 e il 1580 furono fatti dei rilievi cartografici e topografici della Sicilia ad opera dell’architetto senese Tiburzio Spannocchi. Lo scopo era quello di valutare lo stato delle difese costiere a seguito dei numerosi attacchi pirateschi. Nei sopralluoghi furono annotate 24 tonnare di cui 9 nel territorio palermitano (Dell’Orsa, Carini, Capace, Renella, S.Lia, Solanto, Trabia, Cefalù, Della Cala di Rasighelbe, 9 nel trapanese (Favignana, Bonagia, S.Todaro, una non precisata, Del Cappelliere, Scopelle, Cofano, Castellammare e S. Vito) e sei in quello messinese (Caronia, Oliveri, Tono, S. Antonino, tonnarella di Milazzo e una a “Lo Porto”). Della costa sud della Val di Noto fa riferimento solo a Pozzale (Pozzallo) e Punta Cerciore dove consiglia di fare una torre se si volesse fare una tonnara. Ovviamente l’elenco non implica che queste fossero le sole tonnare presenti nell’isola, ma soltanto quelle presenti in prossimità di torri.
Nel 1582 per la concessione della Regia corte della tonnara di S. Maria del Piano, a Patti, venne per la prima volta specificato l’obbligo di rispettare le tre miglia di distanza da tutte le altre tonnare.
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, Camillo Camiliani redasse il manoscritto “Descrittione dell’isola di Sicilia” insieme a 218 tavole di disegni acquerellati. Nella descrizione riporta 24 siti di tonnare con delle differenze, rispetto all’elenco precedente, nella denominazione e nella localizzazione.
Ciò dimostra che la pesca del tonno era un’attività molto complessa e ad eccezione delle grandi tonnare come quella di Favignana o Marzamemi, le piccole tonnare non avevano un’attività continua, ma spesso passavano diversi anni tra una stagione produttiva e un’altra.
Nel XVI secolo, sicuramente le piccole tonnare attive furono molto più numerose, se una norma stabiliva l’obbligo di mantenere una distanza minima tra una tonnara e un’altra. A causa di ciò infatti, diversi e documentati sono i conflitti e le cause giudiziarie fra le tonnare siciliane, sorte nel periodo compreso tra il 1584 e il 1785, per questioni relative proprio ai loro “confini”.
Nel periodo spagnolo inizia anche la privatizzazione delle tonnare. La corte spagnola, infatti, dovendo sanare le ingenti perdite economiche dovute alla guerra dei Trent’anni, decise di alienare molti beni e diverse tonnare. Così, i genovesi Pallavicini acquisteranno nel 1640 le grandi tonnare delle Egadi, nel 1638 donna Caterina Stella acquisterà dalla regia Corte la tonnara di Bonagia, Ponzio Valguarnera acquisterà le tonnare di Vergine Maria e Arenella, quella di Mondello fu ceduta ad Alfonso Guiglia nel 1637 e così via. Nasce un nuovo periodo di pesca di tipo imprenditoriale molto redditizio.
Nel 1714 l’ingegnere e colonnello Ignazio Amico di Castellalfero, su incarico di Vittorio Amedeo di Savoia censì 55 tonnare con una distribuzione territoriale molto più frastagliata rispetto alle precedenti e con una proliferazione significativa sia nel litorale settentrionale che quello meridionale di Avola fino ad Augusta.
Nel 1779, la Nuova Carta corografica della Sicilia di Giovan Battista Ghisi, segnala 33 tonnare.
La prima opera sistemica scritta sulle tonnare siciliane si deve al Marchese di Villabianca (1720- 1820), autore tra le numerose opere prodotte, di 48 volumi di “Opuscoli palermitani”, tra cui l’opera dal titolo Delle tonnare in generale dell’isola, nella quale ripercorre la storia delle tonnare con l’utilizzo di fonti letterarie e documentarie, considerandole una delle più importanti attività economiche della Sicilia del tempo.
Sulle tonnare attive nella Sicilia del XVIII secolo il Marchese di Villabianca stila un elenco di 71 tonnare completo di indicazioni geografiche e dati sulla proprietà, storia, gestione, ma anche dati relativi agli oneri tributari.
Nel 1816 Francesco Carlo D’Amico, proprietario della tonnara di S. Giorgio (Patti), pubblica un testo dal titolo “Osservazioni pratiche intorno alla pesca, corso e cammino de’ tonni” dove descrive le tonnare presenti sulla costa siciliana. L’elenco consta di 51 tonnare, di cui le prime 39 di andata e le restanti di ritorno. Ma il numero di tonnare attive con continuità elencate non superava le 32 unità.
Nel Settecento arriva la crisi. Le cause furono diverse a partire dalla diminuzione della vendita per la presenza sul mercato del pesce salato proveniente dal nord Europa a prezzi più competitivi, la presenza del tonno sott’olio a prezzi molto ridotti proveniente in particolar modo dalla Spagna e dal Portogallo, la diminuzione del prodotto pescato, i rischi sempre maggiori delle incursioni piratesche dei turchi e non ultime le “erogazioni annue” alle quali erano sottoposte le tonnare, come quelle elencate nel “Libro delle polizze delle gravezze della tonnara di Solanto”, dove centinaia di tonni erano distribuiti tra Conventi, Monasteri, giudici, notari, gabellotto della pescheria etc.. Venne istituita quindi con Reale decreto, una Commissione incaricata di accertare lo stato delle industrie delle tonnare, composta da diversi senatori del Regno e dal professore Pietro Pavesi della Regia Università di Pavia.

La pesca del tonno. Aquaforte di Jean-Pierre Houël, in Voyage pittoresque des Isles de Sicile, de Malte et de Lipari. Paris, 1782. Foto da wikimedia commons

La Commissione richiese a ciascun proprietario di tonnara italiana tra i vari atti, anche i dati relativi alla produzione della propria tonnara riferiti all’ultimo quinquennio (1879-1883) e alle autorità marittime i dati e documenti relativi a tonnare attive e dismesse.
Nel 1887 venne redatta la relazione finale della Commissione, per poi pubblicarla sotto forma di libro nel 1889 dove risultano attive soltanto 26 tonnare.
Il processo produttivo delle tonnare nella sua interezza viene rivisto alla fine dell’Ottocento, quando cambia la lavorazione industriale del pescato e si passa dal barile in legno alla latta sott’olio.
Nel 1912 secondo Giuseppe Pitrè di tonnare attive ne restano 21.
Nel Novecento moltissimi impianti rinunceranno a “calare” le reti. Le motivazioni sono diverse: i bassi esiti delle catture, le due guerre, l’incremento dei costi, i disturbi antropici sempre più pesanti, le tecniche di pesca invasive come l’uso della dinamite, l’abbandono delle rotte migratorie dei pesci sottocosta e l’inquinamento solo per citarne alcune.

In merito ai dati sulla produzione, la bibliografia esistente non dispone di serie storiche significative, ma dati parziali relativi solo a qualche stagione di pesca. Ciò è dovuto al fatto che molte fonti di impresa sono andate perdute negli anni. Una delle rare fonti documentali è quella dell’archivio dei Pallavicini di Genova nel quale si conserva il fondo sul patrimonio delle Egadi, isole e tonnare, dal 1640 al 1833. Pertanto, sulla produzione delle tonnare si può fare solo una stima indiretta e sommaria.
A Solanto nel 1679 la produzione fu di 2.867 barili di prodotto lavorato (un barile è di 36 kg), mentre l’anno successivo la produzione fu soltanto di 1.501 barili. Ciò denota il declino produttivo seicentesco della tonnara.
La produzione di Favignana sempre nel 1679 fu di 3.989 barili e quella di Bonagia di 2.113.
Per le tonnare di Favignana e Formica i dati disponibili sono più numerosi grazie anche alle rilevazioni di Orazio Cancila, in “Aspetti di un mercato siciliano. Trapani nei secoli XVII-XIX”. La produzione della tonnara di Formica dal 1662 fino al Settecento superava quasi sempre quella di Favignana, anche se la gestione delle due tonnare fu sempre unitaria dai Pallavicini, ai Florio ai Parodi. Per Formica la massima resa si ebbe nel decennio 1751-60 con una produzione di quasi 40.000 tonni. A questa seguirà una riduzione della resa per circa sessanta anni consecutivi e poi un cinquantennio di inattività. A ridursi non fu solo il numero, ma anche la stazza dei tonni. Dalla fonte dei Pallavicini di Genova si evincono invece i numeri di tonni del 1759 relativi alle tonnare palermitane di Trabia (1.700), San Nicola L’arena (800), Solanto (2.000), Arenella (500), Vergine Maria (600), Mondello (550), Orsa (350) e trapanesi di Magazzinazzi (1.500), Sicciara (1.000), Castellammare (500), Scopello (900), Bonagia (700), Cofano (500), San Giuliano (2.100), Favignana (3.453), Formica (4.261), San Teodoro (200). Tra le tonnare di ritorno, la produzione più alta era sicuramente quella di Marzamemi che nel 1655 registra 4.500 tonni.
Nel Settecento la mancanza di dati obbliga a fare un salto fino all’Ottocento con la stima derivata dalle Intendenze di Messina e Siracusa per il quinquennio 1835-39.

Le tonnare più redditizie registrate furono per il territorio messinese la tonnara del Tono di Milazzo con 800 tonni nel 1835, e per il territorio Siracusano la tonnara di Marzamemi con 871 tonni per lo stesso anno. Dati che poi iniziarono a contrarsi nel corso del quinquennio successivo. Ma si tratta di cifre dichiarate dai proprietari di scarsa attendibilità.

Confezione di tonno in latta prodotto dai Florio nello stabilimento di Favignana e Formica. Foto di Rino Porrovecchio via Wikimedia commons

Nel 1886 il professore Pavesi redige una classificazione delle tonnare attive in relazione ai dati medi dei tonni per provincia: Trapani, con Favignana (di I ordine, media di 5.000 tonni), Formica (di II ordine, media 2.000 tonni), Scopello (III ordine, media 1.000 tonni), Bonagia, Castellammmare del Golfo, San Giuliano, Secco (IV ordine 500 tonni); Palermo con Solanto (III ordine), S. Elia, S. Nicolò l’Arena, Trabia IV ordine), Arenella evergine Maria (V ordine, media inferiore a 500 tonni); Messina con Oliveri (III ordine), S. Giorgio di Patti e Tono (IV ordine), Rocca Bianca e S. Antonino ( V ordine); Siracusa con Pachino (I ordine), Capo Passero e Santa Panagia (III ordine); per un totale di 21 tonnare attive.
Nel Novecento i dati registrano una riduzione dei volumi nella quasi totalità dei casi, fino alla definitiva cessazione dell’attività della pesca del Tonno e alla chiusura degli stabilimenti.

La tonnara è l’impianto a mare che cattura i tonni costituito da una successione di “camere di reti” tenute verticalmente tramite galleggianti in superficie e da piombi sul fondo. Le camere sono delimitate da una serie di reti mobili che costituiscono le porte, e da un unico varco di ingresso legato con un pedale che ha la funzione di convogliare i tonni verso di esso. L’ultima camera, detta della morte, è dotata di rete anche in fondo. Quando i tonni arrivano qui, dopo una serie di manovre di apertura e di chiusura delle porte, la rete di fondo viene sollevata dalla ciurma dei pescatori e i tonni vengono portati in superficie e, al segnale del rais, ha inizio la mattanza, dallo spagnolo matar, uccidere.
Gli schemi d’impianto delle tonnare sono rimasti pressoché invariati nei secoli. Quelli che sono variati sono soltanto i materiali. Tutto il resto, i movimenti, i canti, le preghiere, le invocazioni superstiziose, sono rimasti immobili e fissi per secoli.
Gli impianti di pesca vengono suddivisi in due categorie: tonnare di andata e tonnare di ritorno.
Questa distinzione riguarda il ciclo di vita dei tonni. Le prime, dette anche “di corsa” sono quelle che catturano i tonni nel periodo di riproduzione che precede la deposizione delle uova, tra maggio e giugno di ogni anno, quando i tonni si avvicinano alla costa. Le seconde invece catturano i tonni alla fine di questo periodo quando, da metà luglio fino alla fine di agosto, soddisfatte le contingenti esigenze fisiologiche, riprendono le rotte di ritorno verso i luoghi da cui era partiti.
L’architettura delle tonnare di mare varia in base al sito, ma il funzionamento è uguale per tutte.
Un esempio di struttura di tonnara di corsa lo ritroviamo ben descritto nel testo di Lo Coco, “L’ultima levata: la tonnara di Solanto dai fasti al declino” (2006), secondo cui la tonnara di Solanto nel lungo periodo che va dalla dominazione araba fino al 1961, era rimasta pressoché invariata e cioè strutturata da un labirinto di reti costituito da due corpi: uno principale, chiamato isola, e un’appendice chiamato coda. L’isola, aveva una forma romboidale lunga complessivamente 585 mt. Le reti erano ancorate in basso da ancore e macigni, fino ad una profondità di 70 mt e sostenute in alto da galleggianti di sughero.

Schema esemplificativo della struttura in mare della tonnara con individuazione del percorso dei tonni fino alla camera della morte. Elaborazione grafica: Emanuele Messina

L’isola era costituita da cinque spazi, chiamate camere, che disponevano delle porte amovibili che venivano opportunamente aperte o chiuse al passaggio dei tonni. L’entrata principale avveniva nella camera chiamata foratico. Da qui passavano alle altre camere in successione chiamate bordonarello, bordonaro e piccolo fino, fino ad arrivare nell’ultima, la camera della morte dove avveniva la mattanza. La coda della tonnara di Solanto era costituita da una lunghissima rete di 1350 mt, perpendicolare all’isola, ancorata con 67 ancore. Da qui i tonni arrivavano e venivano indirizzati verso l’isola e le sue camere per concludersi con la mattanza.
Le tonnare di andata e di ritorno si suddividono a loro volta in tonnare di golfo o di punta, in base alla loro ubicazione territoriale, se appunto all’interno di un golfo o all’estremità di un promontorio.

Riproduzione dell’isola e del sistema di reti di una tonnara esposto al Museo della tonnara di Bonagia. Foto: EsperienzaSicilia.it

Oggi, con il termine tonnara si indica, ormai, indistintamente sia l’architettura di mare fatta di reti che la fabbrica di terra, il cosiddetto marfaraggio, atto a diverse funzioni, dalla conservazione delle barche e degli attrezzi alla lavorazione del pescato, alle abitazioni dei tonnaroti, alle officine per la riparazione delle barche e delle reti. Dalla dominazione normanna in poi, il marfaraggio presenta uno schema articolato attorno ad una corte chiusa, come il baglio agricolo dell’entroterra siciliano, ma aperto sul mare su cui si affacciavano i vari corpi di fabbrica, tra cui, imponenti spiccano la residenza del proprietario e la torre usata sia per l’avvistamento dei tonni che dei pirati. I materiali e la tipologia del marfaraggio varia da luogo a luogo in base alle risorse locali disponibili. L’architettura della tonnara, quindi, non è una tipologia architettonica esattamente identificabile in quanto spazio, dimensioni e funzioni si svilupperanno in base ai luoghi, al successo del pescato in un determinato periodo storico, alle esigenze momentanee di produzione. Ogni marfaraggio quindi rappresenta un insediamento unico, non riconducibile a tipi predeterminati; un patrimonio storico-architettonico di grande interesse culturale e antropologico, spesso inserito in un contesto ambientale di pregio. Il sistema costruttivo è in muratura con capriate in legno o navate con archi e volte. Inoltre, essendo la pesca del tonno legata a determinate stagioni, gli ambienti avevano un uso polifunzionale per essere utilizzati anche nel resto dell’anno. Nell’Ottocento alcune tonnare diventano importanti opifici industriali, come Favignana e Bonagia. Nel marfaraggio troviamo inoltre vari tipi di ambienti: l’appiccatoio, o appennituri l’ambiente dove venivano appesi i pesci decapitati perché si dissanguassero. Qui avveniva anche la selezione e lo stoccaggio per il consumo fresco o verso le altre fabbriche per la essiccazione o conservazione. La stanza di deposito delle reti è la camparìa. Qui le reti venivano sollevate da terra per consentire la ventilazione. La trizzana era l’ambiente di costruzione e ricovero delle barche, accanto i magazzini, per il deposito degli attrezzi e il ricovero delle palme. Oltre gli alloggi erano presenti anche tutti i servizi necessari alla vita quotidiana tra cui le cucine, la mensa, la chiesa.
Un tempo, gli impianti per la pesca del tonno nei paesi del Mediterraneo e in Sicilia erano numerosissimi, ma consistevano principalmente in cosiddette “tonnarelle”, cioè piccole tonnare. Queste avevano una camera della morte più leggera, erano più ridossate e catturavano oltre i grossi tonni adulti che eventualmente entravano nell’isola, anche altri pesci ed avendo reti più leggere potevano essere salpate anche più volte al giorno.

Fasi finali della mattanza nella camera della morte della tonnara di Favignana. Foto: CRICD

Le grandi tonnare erano di numero limitato. Le più grandi tonnare di corsa erano Favignana, Bonagia, Scopello, Magazzinazzi, San Cusumano, Solanto, Trabia, Oliveri, Tono di Milazzo. Le grandi tonnare di ritorno erano quelle di Siculiana, Sciacca, Capo Granitola, Marzamemi, Capo Passero, Pachino.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento la quantità del pescato iniziò il suo inesorabile declino fino alla definitiva chiusura del settore.

La pesca del tonno, essendo un’attività complessa, è sempre stata un investimento a forte rischio. La stagione della pesca era legata alle migrazioni dei tonni, al loro ciclo biologico e riproduttivo e a variabili non controllabili. Spesso nelle piccole tonnare, a una fase produttiva corrispondeva una o più fasi di inattività. Accadeva allora che i proprietari della tonnare formassero società di “caratari”, solitamente di 24 quote-capitale, detti per l’appunto carati, per condividere l’eventuale perdita o i lauti guadagni.
I tonnaroti non godevano di grande stima da parte degli altri pescatori. Se il tonno era considerato “il porco di mare” da cui non buttare via nulla, i tonnaroti erano chiamati i “macellai di mare”, anche perché non si spingevano molto al largo. Inoltre venivano pagati con un salario bassissimo.
L’organizzazione del lavoro era distinta in due sistemi gerarchici, la ciurma di terra e la ciurma di mare. Ogni tonnara aveva una sua organizzazione gestionale e amministrativa propria, e la contrattualizzazione seguiva obblighi e clausole simili, ma non uniformi. La forza lavoro di una tonnara comprendeva la ciurma di mare con figure come i raisi, i sottopadroni, i marinai i capiguardia i maestri di mare, il garzone dei mastri di mare, i portari, i muciari, i faratici, e la ciurma di terra con i mezzi faratici, il capo maestro di baglio, il capo maestro di camparìa, i maestri bottai, i baglieri (magazzinieri), il controscrittore, i fanti i mezzi fanti, il barbiero e i Cappellani. A questa forza lavoro manuale si aggiungevano poi quella dirigenziale e amministrativa: il direttore dello stabilimento che si occupava dell’efficienza delle scorte di magazzino curando la stagione in corso, prevedendo quelle per le stagioni successive e provvedeva anche alla manutenzione degli edifici e del barcareccio; il Capo del personale che stipulava i contratti. Mentre nel processo di lavorazione del pesce la forza lavoro era data dal Capo appiccatoio, che coordinava la fase di preparazione del tonno per la cottura, Capo cuocitore, il Capo stivaggio che coordinava l’inscatolamento del tonno cotto, Capo salatore, Aggraffatore, responsabile dell’ultima fase della sterilizzazione e chiusura delle latte.
La ciurma di mare era composta da circa 60/100 marinai, secondo la grandezza della tonnara divisi in un quadro gerarchico che partiva dal rais e a seguire sottorais, Padroni o marinai di parte e infine i marinai generici che in base al tipo di barca cui erano assegnati prendevano il nome di muciaro, bastardiere, paliscarmiere e rimorchiere.
Il rais era la figura apicale della ciurma, responsabile di tutte le operazioni di pesca. Era anche un uomo carismatico, al quale veniva affidato non solo il comando, la direzione, ma anche la preghiera. Era il tramite tra il naturale e il soprannaturale. Quindi doveva essere un uomo con diverse qualità, come capacità di comando, intelligenza, intuito e soprattutto carisma. In inverno il rais sceglieva e istruiva gli uomini per la stagione, preparava le reti sostituendo quelle deteriorate. Durante la stagione di pesca predisponeva il tutto per fare mattanza.
Diverse erano le figure e le barche impiegate nella pesca. Il rais lavorava in stretta collaborazione con il sottorais o vicerais. Gli altri componenti della barca del rais, chiamata muciara, venivano chiamati appunto muciari. La muciara era dotata anche di un vetro che permetteva la visione del fondale marino. Poi vi erano i bastardieri, marinai addetti al trasporto di materiale vario e i palischermieri, componenti della barca chiamata palischermi (u palascammu), che si occupavano della pulizia e della manutenzione del barcareccio e il trasporto del tonno in riva.

Tecnicamente ad inaugurare la stagione della pesca era la cruciata della tonnara, cioè la scelta dei punti esatti dove calare le reti. Al sacerdote era affidato il compito di benedire le reti prima del loro calo.
Da qui si iniziava il calo e l’apparecchiatura del cruciato scandito da un invocazione rituale collettiva con valenze magico-sacrali, e gli uomini della ciurma guidati dal raìs iniziano a liberare le ancore. Nell’ultima fase si ancora il pedale, la cuda che collega l’“isola” alla terraferma che fa anche da sbarramento per i tonni in arrivo.
La denominazione “camera della morte” dove avviene la mattanza è un termine che nell’Ottocento ha sostituito la più cruenta “accisa”. Questo termine però non veniva usato dai pescatori che preferivano il poetico corpu, corpo fecondo che partorisce i pesci e genera la vita. Come simbolo di vita e di rinascita, sul bordo inferiore della porta di rete che immette nel corpu venivano intrecciati i fiori gialli della primavera.
Infine, sulla intersezione dei cavi di sommo proprio sopra la bocca d’ingresso preparata per i tonni, veniva ancorata una tavola inchiodata a croce, sulla quale venivano fissate le icone dei santi protettori, in genere Sant’Antonino, San Pietro, San Giuseppe, San Francesco di Paola, e della Madonna. Sulla sommità del palo veniva messa una palma e per questo la cruci viene chiamata anche “palma”. Questo elemento sintetizza simboli religiosi di morte e resurrezione, con saperi nautici. I tonnaroti leggevano ad esempio i movimenti della corrente dai movimenti della palma. Alcune tonnare nel calo delle reti affondavano dentro pezzetti di canna delle immagini della Madonna in parallelo al rito contadino di lasciare icone sacre nelle fondamenta delle case.

Fasi della mattanza a Favignana. Foto: CRICD

La stagione della pesca era una vero e proprio evento che coinvolgeva tutta la comunità e al pari di altri contesti lavorativi, si attivava un linguaggio espressivo-musicale che accompagnava le varie sequenze di lavoro. Spesso quelli che erano marinai e tonnaroti per tre mesi all’anno, erano contadini per tutti gli altri mesi. Così si spiegano vari riti e usanze anche piuttosto recenti, legati agli antichi culti di Demetra e Kore come quello descritto da Raimondo Sarà che racconta dell’intervento richiestissimo di Sarina, detta giubox. Quando i tonni tardavano ad arrivare, bisognava «Portare a ‘nnauto Sarina detta giubox, insomma quella che riceve gli uomini dietro il castello: a estremi mali estremi rimedi», esattamente come Demetra faceva con la terra giacendo con Giasone dove poi germoglieranno i semi (cfr. Sarà 1983).
Terminati i lavori di calo, la ciurma si inginocchiava sulla spiaggia e iniziava a pregare perché il lavoro avesse il suo buon profitto:

Le muciare ormai inutilizzate della tonnara di Bonagia. Foto di Andrea Albini via Wikimedia commons

L’invocazione della protezione divina e dei santi patroni era quindi il primo atto di sacralizzazione della tonnara. In alcuni casi avveniva l’immersione della statua del Santo protettore, seguita dai versi responsoriali di devozione.
Uno dei Santi più importanti per i tonnaroti era Sant’Antonio di Padova. Nella tonnara di Bonagia, la statua lignea del Santo veniva portata in processione al porto e poi usciva in mare con i tonnaroti per poi tornare in cappella a fine giornata. “Santo buongiorno” diceva il rais avvicinandosi con la sua barca al recinto di reti e al rientro salutava con “Bona notti, bona sorti, bona tonnara”.

Imbarcazioni abbandonate tra i saloni della Tonnara del Secco di San Vito lo Capo. Foto di Enrico Cartia via Wikimedia Commons

Temutissima dai tonnaroti era la tromba marina per fronteggiare la quale non si affidavano solo ai Santi, ma anche a pratiche magico religiose tramandate dagli avi con il cosiddetto “tagliatore di trombe”. Questi, era un prescelto, che recitando orazioni apprese nella notte di Natale masticando una foglia di ulivo, tracciava in aria dei segni di croce e “tagliava” la traunara o Dragunara, con chiaro riferimento al drago, con un coltello nascuto, cioè senza punta che perdendo forza cadrà in mare. «C’è pure uno scongiuro che tutti quelli che andavano per mare conoscevano, una volta. Togliendosi il berretto bisognava urlare forte, sfidando il vento, in modo che la Dragunera potesse udirlo: Lunniri santu, martiri santu, mercuru santu, joviri santu, veniri santu, sabbatu santu, duminica di Pasqua sta cuda a mmari csca. E pri lu nnommu di Maria sta cuda tagghiata sia!» scrive Gaetano Basile in “Tonnare indietro nel tempo”.
In tutte le fasi che richiedevano un coordinamento e un gesto lavorativo d’insieme, si intonava la cialoma. Con questo termine di probabile origine araba si indica una espressione vocale ritmica connessa a molte pratiche della pesca, tra cui anche quella del tonno. Si intonavano le cialome quando si allestiva “l’isola”, quando si calava la rete e quando iniziava la mattanza.

Resti della struttura della Tonnara di Avola. Foto di Codas2 via Wikimedia commons

Completato il lavoro di calata delle reti e i riti di benedizione, iniziava la snervante attesa, scandita da turni di guardia che poteva durare anche diversi giorni, fino a quando non giungevano i tonni che disorientati e storditi tra le reti giunti alla camera della morte venivano avvolti nella spirale conclusiva del loro viaggio. Qui cominciava la sanguinosa tragedia della mattanza.
Il rais lanciava il comando alla ciurma “Isamu!”, cioè di alzare la pesantissima rete ed iniziavano a intonare la cialoma. Quando infine la rete giungeva a pelo d’acqua, il rais, dopo avere invocato la protezione di Dio Padre, della Madonna, dei Santi patroni, dava il segnale alla ciurma, ormai impaziente e sovraeccitata, di arpionare i tonni che saltavano in preda al panico investendosi a vicenda in acque ribollenti di sangue e, sospinti dagli arpioni, venivano portati a bordo dei parascalmi.
La mattanza poteva protrarsi per ore. Alla fine ringraziando Dio per il buon esito i tonni venivano portati a terra e trasferiti negli stabilimenti.
Quando la migrazione stagionale dei tonni aveva fine, la ciurma iniziava le lunghe operazioni di smontaggio della tonnara che duravano dieci o quindici giorni. E si preparavano per la stagione successiva.