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I SAPERI DEL MARE

La presenza delle tonnare e dei marfaraggi nel territorio di Santa Flavia (Tonnare di Solanto e Sant’Elia) testimonia l’importanza della pesca del tonno nel comparto economico e sociale locale; oltre ad essere uno dei motori dell’economia locale, la tonnara era, infatti, anche un importante momento di aggregazione collettiva. Proprio all’attività produttiva della pesca del tonno è legata la nascita del borgo marinaro di Porticello dal punto di vista abitativo. Durante il periodo feudale, intorno al 1500, la tonnara divenne un’attività sempre più considerevole dalla portata quasi industriale, tanto da necessitare di molta manodopera. I tonnaroti, provenienti dalle aree limitrofe di Palermo (Vergine Maria, Mondello, Sferracavallo), erano impiegati perlopiù stagionalmente da marzo fino a novembre, periodo in cui si spostavano verso Porticello e occupavano temporaneamente grotte e abitazioni del litorale. Con lo sviluppo dell’attività della tonnara (rimasta in attività fino agli anni Sessanta del Novecento), i pescatori stagionali divennero stanziali, e diedero così vita alla marineria di Porticello.
La stanzialità portò dunque alla diffusione di altre tecniche di pesca artigianali, che potessero essere esercitate anche negli altri periodi dell’anno e che vengono ancora oggi praticate. Insieme alla pesca artigianale si diffuse anche la salagione del pesce azzurro e i pescatori divennero piccoli conservieri.
La pesca artigianale praticata a Santa Flavia, in particolare nelle borgate marinare di Sant’Elia e Porticello, importanti porti della Sicilia Occidentale, è un’attività produttiva di estrema rilevanza per il territorio, che ha radici antiche e che prevede l’utilizzo di diverse tipologie di reti e di strumenti da pesca. Secondo quanto rilevato intorno agli anni Ottanta da Fatima Giallombardo, è possibile raggruppare le reti utilizzate a Porticello nel seguente modo: rriti i summu (reti da posta con deriva e reti da circuizione) e rriti i funnu (reti da posta senza deriva e reti da traino). «Con rriti i summu ci si riferisce essenzialmente a reti la cui parte superiore, u summu, rimane a fior d’acqua. Alcune tra esse vengono lasciate per qualche tempo alla deriva delle correnti; altre non appena calate a circondare la massa di acqua dove sono stati avvistati i pesci vengono poi immediatamente tirate sù. Rriti i funnu sono invece quelle che pescano sott’acqua, pochi passi o diversi metri, e possono essere lasciate per qualche tempo nei tratti di mare dove ci sono correnti più deboli, oppure trainate più o meno a lungo dalla barca» (Giallombardo 1980: 379).

Tra gli strumenti e le reti da pesca tradizionali ancora oggi utilizzate si menzionano le reti a circuizione, gli attrezzi da posta, il tremaglio (trimagghi, rete da posta senza deriva), il palangaro (pesca con la lenza), gli arpioni e le reti a strascico. Tra le reti a strascico di particolare importanza è la tratta o menaide, utilizzata per la pesca di sarde e acciughe.
A questa specie ittica è legata una delle attività produttive storiche e di maggiore rilevanza per la cultura marinara del territorio, quella della salagione del pesce azzurro.
L’antica tecnica della salagione del pesce, praticata attraverso processi di essiccazione di vario tipo, nacque nella Preistoria dalla necessità di conservare il pesce per lunghi periodi, sfruttando le proprietà antisettiche del sale, al fine di mantenere a lungo i cibi. In questo modo il pescato che non poteva essere consumato fresco perché in surplus, poteva essere conservato e mangiato in un secondo momento.
Il pesce veniva inizialmente conservato sotto sale nelle cavità degli scogli; nell’epoca romana la tecnica si specializzò tanto da creare una vera e propria industria del salato e si passò alla conservazione in recipienti di creta. Successivamente il salato venne posto a macerare in piccoli barili di legno, fino ad arrivare all’utilizzo dei contenitori in latta, diffusi ancora oggi.
L’antica tecnica di salagione delle sarde prevede la rimozione della testa e la stratificazione del pesce e del sale a livelli alternati. Il pesce viene poi posto sotto una pressa che fa uscire i liquidi risultanti dalla salatura, attraverso i quali (osservandone il colore o gustandone il sapore) è possibile capire a quale livello di maturazione sia giunto il pesce. Quando le sarde raggiungono il giusto livello di essiccazione si passa alla fase di conservazione: il corpo della sarda viene ripulito della lisca, viene riposto all’interno dei contenitori di latta e poi ricoperto d’olio d’oliva.
L’industria di salagione e conservazione delle acciughe di Porticello è una tra le più importanti della Sicilia. Nella seconda metà dell’Ottocento circa 80 famiglie di Porticello emigrarono nel nord della Spagna, dove esportarono le tecniche tradizionali del territorio, creando delle piccole fabbriche di salagione, alcune delle quali esistono ancora oggi.
«Fin dalla fine della seconda guerra mondiale si iniziò a Porticello il processo di motorizzazione delle più grosse barche a remi e a vela […]. L’antica alalungara che a Porticello costituì fino alla seconda guerra mondiale la barca utilizzata, tra gli altri, per uno dei mestieri più importanti quello cioè della pesca delle alalonghe, oggi non esiste più». (Giallombardo 1980: 374-375).
Questo tipo di imbarcazione, che prende il nome dall’omonimo attrezzo (rete da posta derivante), contribuì, infatti, alla crescita e allo sviluppo della marineria di Porticello nella prima metà del Novecento, quando alcune famiglie si specializzarono nell’antica arte della costruzione delle imbarcazioni, con una particolare maestria nella costruzione dell’alalungara, considerata il vero fiore all’occhiello della cantieristica di Porticello. Un altro tipo di imbarcazione tradizionale molto diffusa, insieme alle barche di piccola taglia come lanci, lancitieddi e vuzzarieddi, era la sardara, che aveva la lunghezza di circa dieci metri con prora svasata leggermente in fuori e con la poppa a rientrare e relativo prolungamento di ruota, più di un metro, che era sagomato a coda di sirena.
Ben sette cantieri nautici erano pienamente operativi fino alla fine degli anni Ottanta ed erano gestiti da altrettante famiglie di mastri d’ascia, anticamente chiamati anche mastri conzaioli o conza varchi, che “conzavano” le barche, iniziando dallo scheletro, avvalendosi dell’esperienza tramandata da padre in figlio per generazioni: la famiglia Orlando, la famiglia Treviso, la famiglia Sferlazzo, la famiglia Lo Coco, la famiglia Di Marco e la famiglia Crivello.
Questi cantieri si trovavano perlopiù all’interno o nelle adiacenze del bacino portuale, nella borgata marinara di Santa Nicolicchia, e a Sant’Elia.
L’antica arte dei mastri d’ascia di Porticello era così professionalizzata e la sua capacità produttiva era talmente importante da diventare uno dei centri della cantieristica “da pesca” del Tirreno meridionale.
Dagli anni Novanta, in seguito all’introduzione di alcune normative che regolamentano il settore ittico, in particolare il D.M. del 26 luglio che bloccava le licenze di pesca, l’attività dei maestri d’ascia ha iniziato ad andare incontro ad una forte crisi, legata anche alla diffusione delle imbarcazioni in resina a discapito delle barche tradizionali, costruite in legno. Diversi cantieri hanno dunque dovuto chiudere e/o ridimensionarsi, adattandosi al crescere della nautica da diporto.
Molti cantieri, pur specializzandosi nel diporto, restano aperti e visitabili. Nei pressi del Porto di Porticello ed a Santa Nicolicchia, alcuni di essi lavorano ancora il legno con la stessa maestria dei nonni e dei padri.
Nel borgo marinaro di Porticello è viva nella memoria collettiva la credenza del taglio delle trombe d’aria o, come viene chiamata nel dialetto locale, cura r’acqua.
Secondo la tradizione, quando una minacciosa tromba marina si abbatteva su un’imbarcazione alcuni pescatori di Porticello avevano la capacità di sconfiggere la calamità naturale, portando in salvo l’equipaggio. In queste occasioni, infatti, un marinaio, con un coltello dalla lunga lama affilata, si posizionava dritto sulla prua rivolto verso la tromba marina e, pronunciando un’orazione dalle caratteristiche sacre e profane, tracciava nell’aria un immaginario taglio che divideva in due parti la tromba marina.
I tagliatori di trombe marine potevano essere solo i marinai maschi primogeniti, appartenenti allo stesso nucleo familiare, che avevano imparato la formula in segreto dal padre, la notte di Natale. Tutti coloro che avevano acquisito questo potere facevano voto di segretezza e promettevano di non rivelare mai la formula trasmessa dai propri avi.