FAVIGNANA Saperi del Mare

Favignana (TP)

Description

I SAPERI DEL MARE

Foto: CRICD

Quella di Favignana è una tonnara “di corsa” perché intercettava il flusso dei branchi di tonni provenienti dall’Atlantico, in cerca delle acque più calde del Mediterraneo orientale, ideali per la riproduzione. Per questo motivo l’attività della pesca del tonno, seguendo i cicli biologici del pesce, si svolgeva nel periodo di maggio e giugno. La mattanza rappresenta il momento apicale di tutta una serie di lavori che si svolgono durante l’anno.

A marzo si iniziavano a preparare le reti e le imbarcazioni, generalmente il 23 aprile, nel giorno della ricorrenza di S. Giorgio (ma la data poteva variare a secondo della decisione del proprietario della tonnara, previa consultazione del rais), venivano calate le reti e dalla fine di maggio fino alla fine di giugno si svolgevano tutte le attività di pesca. In questo periodo dell’anno è, infatti, più semplice attirare il tonno nella trappola della tonnara, poiché segue l’istinto riproduttivo che lo spinge ad andare sempre in una sola direzione. La tonnara di Favignana è costituita da una struttura architettonica fabbricata a terra, il marfaraggio, destinato alla lavorazione dei tonni, a magazzini e ad alloggi, e da un complesso sistema di camere, poste nel fondale marino, le cui pareti sono fatte di reti. Quando veniva calata la tonnara impegnava 8500 metri di rete, 5000 blocchi di tufo e 370 ancore per tenere le reti ancorate al fondo, circa 3000 galleggianti con 60/65 operai (i tonnaroti), un capo (il rais) e un “vice” (sutturais). Le camere della tonnara costituiscono un percorso obbligato, lungo centinaia di metri, che il tonno, una volta entrato, continua a seguire fino all’ultima camera, denominata, appunto, la “camera della morte”.

Il fondo di questa camera, costituito da una rete molto spessa, è chiamato coppo e veniva issato dai tonnaroti quando i pesci giungevano dentro la camera per compiere la vera e propria mattanza.

Foto: CRICD

L’azione di issare la rete, così come tutte le fasi della pesca, venivano dirette dal rais, capo della tonnara, che si trovava a bordo della muciara, una piccola imbarcazione posta al centro della camera della morte. Il coppo veniva dunque issato fino a portare i tonni in superficie dove, avendo sempre meno acqua a disposizione, si agitavano uccidendosi, ferendosi o stordendosi a vicenda, finché i tonnaroti, su indicazione del rais, li arpionavano e li caricavano sulle imbarcazioni morti o moribondi.

La fatica del lavoro dei tonnaroti era sempre accompagnata dalle cialome, canti rituali e del lavoro che davano il ritmo delle operazioni da svolgere e che erano più o meno intense a seconda del tipo di azione che si stava svolgendo.

Sacralità e ritualità erano elementi costitutivi di tutte le fasi della pesca del tonno, che erano sempre precedute, accompagnate o seguite da preghiere e invocazioni propiziatorie o di ringraziamento. Ciò si evince chiaramente dallo stretto legame tra la tonnara e la chiesa ad essa afferente e alla maggior parte dei testi delle cialome intonate dai tonnaroti.

La pratica della pesca del tonno risale nelle Isole Egadi al periodo del primo Neolitico. Nella “Grotta del Genovese”, a Levanzo, sono presenti, infatti, pitture rupestri che rappresentano scene di caccia del tonno. Le prime fonti scritte risalgono, invece, al II d.C. e rimandano al Trattato De Piscatione di Oppiano di Cilicia, nel quale si conserva memoria della complessità con cui già allora si svolgeva il rito della pesca del tonno e si descrive la struttura della tonnara come un articolato sistema di camere, porte, gallerie ed atri e cortili, dal quale, una volta entrati, per i tonni era impossibile uscire. Oppiano ci racconta della pesca nell’area del Mediterraneo e ne descrive il cerimoniale secondo un preciso ordine ed una gerarchia.

La storia della mattanza si intreccia a quella dei popoli che hanno svolto questa attività nelle coste della Sicilia. Sia Fenici che Cartaginesi praticavano la pesca del tonno, mentre i Greci furono i primi a catturare i tonni non singolarmente, ma in branco. Ai Romani si deve il perfezionamento delle tecniche di conservazione del pesce, soprattutto sotto sale. Furono infine gli Arabi a sviluppare la pesca del tonno come è oggi conosciuta, come testimoniano le numerose espressioni e i termini che ancora persistono nel lessico afferente all’attività della mattanza (cfr. Sarà 1983).

Nel passaggio tra la memoria e la pratica del rito, l’attività della pesca si lega indissolubilmente alla strutture architettoniche delle tonnare. Tra queste, in Sicilia, quella di Favignana costituisce un emblema, la tonnara più antica, oggi non più attiva nella sua funzione industriale, ma convertita in polo museale.

L’ultima mattanza di Favignana si è tenuta nel 2007. Tra le varie motivazioni che hanno portato alla sospensione di questa attività tradizionale c’è la mancanza di una quantità di quote tonno che consentisse di non andare in perdita.

La pesca del tonno a Favignana è stata inserita nel 2010 nel REI – Registro delle Eredità Immateriali, nel Libro dei saperi (n. prog. 145).

Foto: www.freepick.com

Il ciclo produttivo del tonno, in tutte le sue fasi, ha avuto per le Isole Egadi una funzione sociale, economica e culturale di estrema rilevanza.

Una volta pescati, i tonni venivano portati allo stabilimento per la successiva lavorazione e conservazione, che prevedevano diversi passaggi. Si iniziava la lavorazione con il taglio della testa, successivamente il tonno decapitato si attaccava per la coda a dissanguare in una zona fresca esposta a Nord detta “Bosco” e lasciato lì per almeno 24 ore. Si passava poi al sezionamento, fase particolarmente delicata perché richiedeva un’accurata conoscenza dell’anatomia del corpo del pesce. I diversi tagli del tonno sono infatti estremamente importanti nella conservazione, in quanto ogni parte ha diverse consistenze e sapori, ed è più o meno adatta a particolari tipi di preparazioni. Tra le diverse parti del tonno si menzionano la ventresca, il tarantello (che equivale al filetto), la curidda (buona ma magra), la busunagghia o buzzonaglia (più di scarto e meno pregiata) etc. I pezzi venivano lavati sotto acqua corrente e poi bolliti, separati per tipologia, in grandi caldaie contenenti acqua e sale per almeno un’ora e un quarto.

Il tonno bollito si collocava in grandi ceste forate dove restava a sgocciolare per almeno 24 ore; lo si portava poi in un grande locale detto “stiva”, dove veniva messo in latte diverse a seconda della qualità del tonno e della capacità dei contenitori.

Un nastro trasportatore portava le latte nella cosiddetta “stanza dell’olio” dove delle operaie riempivano le scatolette con dell’olio di oliva; le latte venivano poi portate in un altro grande locale detto “galleria”, dove si provvedeva a mettere il coperchio e a saldare lo scatolame con un filo di stagno.

Il passaggio successivo era la sterilizzazione all’interno di un grande macchinario situato in una zona detta “California”, perché, per un tempo variabile a seconda della grandezza delle latte, il vapore utilizzato per la sterilizzazione raggiungeva temperature altissime.

Infine le latte venivano lavate, per sgrassarle da eventuali tracce di unto; venivano poi inviate al deposito dove erano confezionati gli imballaggi per la vendita.

Tutte le operazioni di conservazione del tonno rosso venivano svolte all’interno dello Stabilimento Florio, che conserva ancora oggi le tracce di tutte le fasi del ciclo produttivo del tonno, dalla pesca alla conservazione sott’olio.

Un aspetto molto importante che è necessario menzionare riguarda l’importanza della famiglia Florio nello sviluppo delle tecniche di conservazione del tonno.

I Florio furono una famiglia di industriali siciliani, di origini calabresi, che tra l’Ottocento i primi del Novecento costruirono un impero economico, commerciale e industriale.

Nel 1841 Ignazio Florio, già imprenditore di successo, arrivò a Favignana dove prese in affitto le tonnare di Favignana e Formica dai signori Pallavicino, che le avevano acquisite due secoli prima dai Borboni. Il primo intervento dell’imprenditore fu quello di ampliare e ristrutturare la tonnara, costruendo lo stabilimento per la conservazione del tonno, con l’intervento dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda.

Ignazio Florio fu l’indiscusso protagonista dell’industria del tonno a Favignana, poiché introdusse l’uso dell’olio per la conservazione e per poterlo commercializzare in contenitori di latta. Promosse inoltre l’utilizzo delle parti del tonno che prima venivano gettate, arrivando a produrre colla e concime dagli ultimi scarti.

All’Esposizione universale del 1891-1892, presentò inoltre le innovative scatolette di latta con apertura a chiave attualmente ancora in uso.

Oggi la tradizionale tecnica di conservazione del tonno rosso viene praticata, secondo i dettami di quella antica tradizione, dagli eredi di Nino Castiglione, operaio dello Stabilimento Florio di Favignana nei primi anni del Novecento. Negli anni Ottanta Castiglione acquisì l’azienda e ricominciò la produzione conservando le antiche tecniche.

A Favignana era presente la figura del Draunaru, ovvero del tagliatore di trombe d’aria. I pescatori conoscevano una preghiera per “tagliare” i tornadi; ancora oggi qualcuno tra gli anziani recita la preghiera quando si forma una tromba d’aria a mare, armato di un grosso paio di forbici. Si riporta di seguito la trascrizione della preghiera, riferita da un’informatrice locale.

Il termine “frascatole” deriva probabilmente dal francese flasque, che significa “morbido”, “molle”. La parola venne trasformata dai siciliani in frasc, da cui “frascatole”.

Secondo la tradizione le frascatole vennero “inventate” nelle cucine delle grandi famiglie francesi, al tempo della dominazione angioina in Sicilia (1266-1282). La leggenda racconta infatti che le donne del popolo avevano il compito di preparare il cous cous per i regnanti francesi, lavorando la semola con l’acqua.

Poteva talvolta accadere che, a causa di un errore nell’incocciatura o di un procedimento troppo frettoloso, si ottenessero dei grani di cous cous troppo grossi o di forma irregolare. In queste occasioni gli aristocratici rifiutavano il pasto e rimandavano in cucina i piatti che le cuoche avevano preparato per loro. Queste ultime portavano allora a casa la pietanza per consumarla insieme alle proprie famiglie. Qui cuocevano il “cous cous sbagliato”, come se fosse una pastina, assieme alle verdure di cui disponevano.

Sebbene, come già indicato, le origini del piatto siano prettamente contadine (la ricetta originale prevede l’utilizzo del broccolo o di altre verdure come condimento), dagli anni Sessanta in poi la ricetta tradizionale delle frascatole è stata trasformata in piatto di eccellenza, con l’uso del brodo di pesce e dell’aragosta, grazie all’iniziativa di due ristoratrici del borgo (le sorelle Guccione). Le frascatole, anche nella loro versione con pesce, sono oggi considerate un piatto identitario di Favignana.

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